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I VINI

Nella Roma tradizionale il vino non aveva nulla a che fare con l’ebbrezza, con la perdita della coscienza, ossia del discernimento visivo attraverso la suggestione sonora. Il vino era
alimento: preparato con misura doveva essere bevuto con moderazione, per dare maggior vigore al corpo sano, per curare il malato. Nella sua valenza religiosa - non esiste
nell’antica Roma atto umano che non abbia il suo fondamento in un superiore ordine
divino - esso veniva offerto a Giove, protettore dell’equilibrio umano e di quello di
un mondo che allora era evidentemente quello individuabile soltanto nell’ordine di
Roma. Le fasi della preparazione del vino erano caratterizzate da rituali e tempi che
scandivano i tempi stessi della vita individuale, civile e politica dell’Urbe.
.
Il vino curava il corpo così come il contadino “curava” il vino attraverso un giusto
equilibrio fra i suoi componenti, perché la bevanda non era prodotto naturale, ma sapiente ricavato di una raffinata tecnica. E nella sua valenza religiosa - non esiste nella Roma tradizionale atto umano che non abbia il suo fondamento in un superiore ordine divino - esso veniva affidato e
offerto a Giove, protettore dell’equilibrio umano e di quello di un mondo individuabile esclusivamente nell’ordine di Roma. Ovviamente la fase iniziale del ciclo del vino aveva inizio con la raccolta del frutto, che avveniva a partire dalla fine di agosto, e che portava
quindi alla vinificazione nel mese di ottobre. Questo momento veniva ritualmente celebrato il 19 agosto, giorno di festa pubblica indicato come Vinalia rustica. La data calendariale reca inoltre la dedica a Venere, della quale veniva celebrata la consacrazione di due templi, uno presso
il Circo Massimo, l’altro presso il Bosco Libitinese (Fest. 322 L.). Eppure il rituale con il quale si dava inizio alla vendemmia era rivolto a Giove: dopo che il sacerdote aveva estratto le viscere di un’agnella, si aveva l’estirpazione del primo grappolo, e quindi l’offerta delle interiora al dio.
Tale rituale, descritto da Varrone, aveva un chiaro scopo, come sottolinea
lo stesso autore: «pro tempestatibus leniendis» (Varr. de l. L. 6, 16), ossia per evitare che piogge e vento potessero rovinare il raccolto. Giungiamo alla seconda fase del ciclo, quella in cui il frutto
viene trasformato nella bevanda. Attività che si svolgeva nel corso del mese di Ottobre, con la ritualizzazione fissata in data 11, che i calendari indicavano come giorno dei Medritinalia. Significativo il dato che il calendario Amiternino indichi questo giorno come feriae Iovi, ad evidenziare che anche questa fase di produzione era posta sotto la protezione
del dio sommo. Il termine “Meditrinalia” dovrebbe derivare dal sostantivo “meditrina”, indicato da Dumézil come il luogo utilizzato per la produzione della bevanda. Cosa che avveniva mediante un’operazione di mescola, per cui al succo dell’uva spremuta veniva aggiunta una certa
quantità di vino ad alta gradazione invecchiato allo scopo. Varrone scrive «Meditrinalia a medendo», facendo quindi derivare il termine dal verbo medeor, che significa “curare”. Il mosto, perché si trasformi in vino, deve essere “curato”, ovvero trattato con del vino forte, in modo da
raggiungere quello stato che lo renda adatto al consumo dell’uomo: non troppo forte, da risultare inebriante, non privo di quella robustezza che lo rende anche un farmaco, in grado appunto di curare chi lo usacon moderazione.
Tornando al rapporto con Giove, notiamo come ancora in questo caso il dio venga posto a protezione di una forma di equilibrio, del vino come di chi lo consuma: egli deve con la sua moderazione salvaguardare la salus del cittadino, che viene a coincidere con la salus (salvezza) dello
Stato.

L'ascesa dell'impero romano ha portato ad un aumento della tecnologia e della conoscenza delle tecniche di produzione vinicola ed è attraverso i romani che si diffuse in tutto l'impero. L'influenza romana ebbe un profondo effetto sulle storie delle regioni vinicole più importanti , dunque in Italia, in Francia, in Germania, in Portogallo e in Spagna. I Romani introdussero il diritto di proprietà della terra, garantendone i confini attraverso il catasto e la centuriazione. Plinio testimonia l'esistenza di tre tipi di vino di questo vino: dolce, sottile e austero. Tra i circa 30 vini citati nell’epoca romana, due meritano un approfondimento: il Cecubo e il Falerno. Il Cecubo (o Caecubum), prodotto con uve dalla varietà Cecuba e descritto da Strabone come “eccellente e sostanzioso”, era destinato al brindisi finale nei banchetti. Il medico greco Galeno così lo definisce: “gradevolissimo, di buon tono, di forte sostanza alimentare, ottimo per l’intelligenza e per lo stomaco”. Ai tempi di Plinio viene quasi abbandonato dai viticoltori perchè subisce la concorrenza dei vini di Marsiglia, che per il loro gusto affumicato conquistarono il ricco mercato di Roma. Il Falerno è prodotto nell’Ager Falernus, tra Caleno e Sinuessa in Campania, presso il Monte Massico. I termini più usati per descriverlo, soprattutto da Orazio, sono severum (cioè asciutto), ardens (focoso), fortis (forte). Era di colore giallo e migliorava con un lungo invecchiamento. A 15 anni era perfetto e diveniva come diceva Marziale, fuscus, cioè bruno. si dice che aveva bisogno di almeno 10 anni per affinarsi, raggiungendo il suo picco qualitativo tra i 15 ei 20 anni e a volte anche molto di più. Della mitica longevità di questo vino si ha testimonianza nel Satyricon dove Trimalcione offre un Falerno di 100 anni. La comparsa del sapore amaro veniva mitigata con l’aggiunta di miele attico, nel significato anche simbolico, di unire la forza latina alla dolcezza greca. Tale era la sua importanza che veniva offerto da Cesare al popolo per celebrare i suoi trionfi militari in Gallia e Spagna. Fino all’800 in Germania era sinonimo del vino di maggiore qualità in Europa. Il Falerno è stato uno dei vini leggendari dell'antichità ed è stato certamente il primo vino a denominazione di origine del mondo.  I tipi più pregiati erano il Massico e il Falerno (dalla Campania), il Cecubo, il Volturno, l' Albano e il Sabino (dal Lazio) e il Setino; i più scadenti erano il Veietano (come tutti i vini dell'Etruria era considerato di qualità scadente), quello del Vaticano e quello di Marsiglia ( i vini della Gallia narbonese venivano affumicati e spesso contraffatti ); vi erano anche alcuni vini resinati, ma considerati di cattiva qualità in quanto la resina si aggiungeva ai vini più scadenti in modo che si conservassero più a lungo. Sulle anfore utilizzate per il trasporto era impressa in una targhetta (pittacium) l'origine e la data di produzione per tutelare l'acquirente, anche se già in quell'epoca esistevano casi di adulterazione; ad esempio in una ricetta di Apicio si insegna a trasformare il vino rosso in bianco. I vini aromatizzati sono indicati sotto il nome di Aromatites, di Mirris, uno dei più apprezzati. Si aveva infatti l'abitudine di fare un vino aromatico, preparato all'incirca come i profumi, prima con mirra poi canna, giunco, cannella, zafferano e palma. Il Gustaticiumè un vino aperitivo che si beve a digiuno prima del pasto, era un vino al quale si aggiungeva miele. Infine erano ricchi di vini medicinali, si mescolava vino e miele e il prodotto era chiamato Mulsum. Il Passumera un vino fatto con uve secche ma che serviva per i malati. Certe famiglie pompeiane si erano specializzate nella viticoltura e facevano invecchiare nelle cantine le anfore di mulsum.I vini invecchiati (quelli che avevano passato l'estate successiva alla data di produzione) erano di grande pregio sulle tavole dei ricchi Romani, i quali li ostentavano nei loro banchetti. Esistevano anche surrogati del vino come la lora, ricavata dall a fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la posca, formata da acqua e vino inacidito (acetum).Nel 37 a. C. Varrone ha scritto nel suo Res rusticae che il Falernum aumentava di molto in valore quando maturava e Plinio scrisse che il famoso Falernum Opimianum (era stato raccolto nelle centurie di Lucio Opimio ) del 121 a. C. fu servito in un banchetto dell'anno 60 a. C. in onore di Giulio Cesare, in occasione delle sue conquiste in Spagna. Anche Caligola amava il Falernum Opimianum invecchiato per molti decenni. e Petronio Arbitro nella cena di Trimalcione fa servire quale vino più importante il Falernum Opimianum invecchiato cento anni. Il Falernum fu dunque il più famoso vino prodotto nell'antica Roma, considerato un primo vino “ grand cru” o di culto nel suo tempo, venduto in tutto il mondo, la sua reputazione è stata immensa. Anfore di Falernum sono state vendute in Britannia, Gallia, Hispania, Cartagine ed Alessandria d'Egitto.
Fu il vino offerto da Cleopatra a Cesare dopo la vittoria. La sua origine è incerta, ma sembra sulle pendici del Monte Massico.
Il celebre medico Galeno scrisse, nel 180 d. C., di dubitare che tutti i Falernum in vendita a Roma fossero originali, dunque anche allora esisteva il rischio di contraffazione delle doc!
Nelle rovine dell'antica Pompei è stato trovato un listino prezzi sulla parete di un termopolio che dichiara: 

 " Per un asse puoi bere vino per due assi si può bere il migliore e per quattro può bere Falerno ".

 

IL FALERNO DEL MASSICO:Quando si pensa alle origini della viticoltura non solo della Campania, ma dell'Italia intera, occorre fare riferimento all'Agro Falerno, l'area settentrionale della Campania ai confini col Lazio, che dai Romani era appunto chiamata Ager Falernus. Si tratta di un'area prevalentemente collinare occupata in buona parte dal vulcano spento di Roccamonfina e dal Monte Massico. Qui nacque il principe dei vini, il Falerno, che per Virgilio (Georg. II, 96) non aveva rivali e che per Strabone (V, 4,3) dava fama a tutta la produzione vinaria della Campania. Plinio (Nat. Hist. XIV, 61-66) lo classifica al 2° posto per qualità e notorietà fra tutti i vini italiani al tempo di Augusto. Il Falerno era così richiesto che la sua produzione non riusciva a stare dietro alla domanda: fu così che esso veniva falsificato frequentemente, come ci informa Galieno (XIV, 77). Frequenti citazioni sono anche nelle opere di Marziale, Catullo e Orazio.
Dalle testimonianze di questi autori ricaviamo che il Falerno era prodotto in tre località diverse, ma con una sola varietà di vite. Pare che i produttori fossero oltre 150. Se ne ricavavano tre qualità: l'austerum, il dulce e il tenue.
Viene descritto come un vino denso (severus), forte (fortis), ardente (ardens) e di colore molto corposo (nigro et fusco). Come avveniva per tutti i vini dell'epoca, anche il Falerno veniva addolcito nel sapore con l'aggiunta di miele o di acqua.
Il Falerno veniva molto apprezzato anche dai personaggi più in vista dell'antica Roma. Cesare lo offriva al popolo in occasione dei suoi trionfi. Nel Satyricon si parla addirittura di un Falerno vecchio di 100 anni e non è l'unico esempio che dimostra la leggendaria longevità di questo vino.
Ed una leggenda ha rischiato di diventare il Falerno, a causa della filossera, un parassita animale che alla fine del secolo scorso ha distrutto buona parte di questi vigneti. Grazie all'amorevole recupero delle poche piante sopravvissute, oggi è ancora possibile gustare questo vino in tutta la sua fragranza.

IL GRECO DI TUFO:Nell'antichità il nome di "Greco" venne dato a molte uve, anche al di fuori della Campania. Plinio, ad esempio, ne ricorda una varietà siciliana. Tale consuetudine è continuata anche nel corso del medioevo quando parecchi vini venivano erroneamente appellati come "Greci".
Il "Greco di Tufo" è una varietà ben precisa che ha la sua area di orgine nel territorio a Nord di Avellino dove sorge la cittadina di Tufo. La sua origine risale sicuramente ai Romani e forse anche a tempi più lontani. Columella chiamava il vitigno "Aminea gemella" in quanto produceva grappoli doppi. Plinio racconta che il vitigno dava "un vino leggermente duro, ma che si conservava molto bene migliorando con l'invecchiamento".
Catone fornisce un'ulteriore differenziazione in "Aminea minor", destinata alla produzione di vino e coltivata in terreni fertili e bene esposti, e quella "maior", la cui uva era invece più adatta ad un consumo diretto.

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